Ventagli #215 — Il tempo che passa o si ferma

Dopo la morte di Gino Mäder mi sono fermato, anche se tutto è andato avanti

Umberto Preite Martinez
LoggioneSport

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Ebbene lo confesso: da quando è successo non ho più visto niente, neanche un minuto. So a grandi linee chi ha vinto, quali gare si sono svolte, più o meno con che dinamica. Ho letto tante notizie diverse, tanti commenti qua e là, su internet e sui social. Non è che ho perso interesse, non definirei in questo modo la situazione attuale. Direi più che avevo bisogno di fermarmi un attimo mentre la giostra continuava a girare inesorabile.

Il 16 giugno è arrivata la notizia della morte di Gino Mäder, come un colpo di bastone dietro la nuca che non ti butta per terra ma ti intontisce e rimani in piedi camminando senza sapere per dove, facendo cose senza sapere perché. Gino Mäder aveva 26 anni, è nato in Svizzera e morto in Svizzera, correndo in bicicletta, cadendo in una discesa come ce ne sono tante, come ne aveva affrontate tante per una vita intera. Forse non sarebbe nemmeno dovuto essere lì visto che fino a pochi mesi fa era data per certa la sua partecipazione al Giro d’Italia appena concluso. Il Covid lo aveva fermato e l’aveva costretto a modificare i suoi piani, saltando la Corsa Rosa e spostando il centro della sua stagione un po’ più in là.

Il Giro di Svizzera si è concluso pochi giorni dopo con la vittoria del danese Mattias Skjelmose, giovane prospetto di nemmeno 23 anni autore di una grande prestazione. Sarebbe stata una bellissima vittoria da festeggiare per lui, perché arrivata al termine di una settimana in cui è riuscito a imporsi vincendo e difendendosi, controllando la corsa con determinazione e riuscendo a mettersi alle spalle avversari ben più quotati di lui quali Juan Ayuso e Remco Evenepoel.

La vittoria di Skjelmose — come tutto questo Giro di Svizzera 2023 — verrà però sempre ricordata per quanto successo a Gino Mäder nel finale della quinta tappa, giù dal passo dell’Albula. La corsa poi è continuata: il giorno dopo con una breve processione perché dubito che qualcuno avesse voglia di correre, giustamente; il giorno dopo ancora con la vittoria di Remco Evenepoel con le mani puntate lassù verso il cielo; e poi la cronometro finale, vinta da Ayuso. The show must go on, hanno detto tutti. Ma forse in pochi intendevano la frase riferendosi non tanto alla corsa, allo spettacolo, allo sport, quanto alla vita, il mondo, tutto il resto. E in questo tutto il resto, certo, c’è anche il ciclismo; è inevitabile e giusto che sia così.

Non so allora perché invece io mi sia fermato; non mi era capitato con altri episodi simili, non l’avevo fatto con Bjorg Lambrecht o prima ancora per Wouter Weylandt. E non c’entra niente il contesto o un’eventuale diversa considerazione per questo o quello. Credo sia più un fatto di maturità — o di vecchiaia, se preferite. Il primo pensiero è andato alla madre, e anche tutti quelli successivi. Ed è strano razionalizzare il fatto che i miei pensieri non siano andati a lui, a quel ragazzo morto all’improvviso, bensì alla madre. Penso sia anche questo un segno del tempo che passa sulle nostre vite adulte.

Ora che siamo arrivati fin qui avrei voglia di cancellare tutto e ricominciare parlando del Giro di Svizzera, della corsa, facendo finta di ignorare quanto successo. Tenendo per me i miei pensieri come sarebbe probabilmente stato più giusto fare; però mi sembrerebbe ridicolo farlo, più di quanto mi sembri ridicolo scrivere quello che ho scritto.

Qualche anno fa mi capitò fra le mani un giornale con un articolo di Gianni Mura — cartaceo, s’intende — in cui parlava di Esteban Chaves. E poi, nel finale, liquidava rapidamente la questione della morte della sua fisioterapista a cui il colombiano era molto legato. Gianni Mura chiudeva l’articolo con due righe, pulite e lineari di cui ricordo vagamente le parole. Ricordo però che la prima sensazione fu di spaesamento, quasi indignazione per quella superficialità. Poco dopo, invece, mi resi conto che con quelle sole poche righe Gianni Mura mi aveva infilato un tarlo nel cervello che mi aveva spinto a pensare a quella ragazza come forse non avrei mai fatto altrimenti. Tanto che ancora oggi, a distanza di anni, continuo a pensare a quelle parole e a quell’articolo e a quella ragazza morta troppo giovane nell’estate del 2017.

Io però non sono Gianni Mura e questa cosa non la so fare.

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Scrittore disorientato. Ho due grandi passioni: il ciclismo e la Fiorentina.