Ventagli #104 — L’ultima volta che a Roubaix ha piovuto

Un breve racconto della Parigi-Roubaix del 2002.

Umberto Preite Martinez
LoggioneSport

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Il giorno di Pasqua, a Roubaix, era prevista pioggia. Era la seconda domenica di aprile e a Roubaix forse avrebbe piovuto. E chi se ne frega, direte voi, chiusi nelle vostre case o intenti a fare un qualche lavoro che la società ha stabilito essere necessario. Probabilmente da voi fuori c’era il sole. È Pasqua, certo. Ma è soprattutto la seconda domenica di aprile.

L’ultima volta che ha piovuto, a Roubaix, nella seconda domenica di aprile, era la seconda domenica di aprile del 2002. Diciotto anni fa.

Pioggia d’aprile

Nelle campagne fra Compiègne e Roubaix, nel nord-est della Francia molto vicino al confine col Belgio, ogni seconda domenica di aprile si radunano orde di tifosi agguerriti, armati di ogni cosa si possa rendere necessaria per sopravvivere per ore intere al sole, su un prato, a bordo strada. Che poi, “strada” è una parola bizzarra per definire quelle mulattiere di sassi.

Il pavé è un sogno che non puoi controllare, un sentiero di pietre nell’esplorazione di se stessi. Sono pietre sconnesse, messe una accanto all’altra come dei grossi sampietrini. Se guardi il pavé da fuori è una strada con un suo fascino, che racconta di un’altra epoca di cui oggi a malapena riusciamo a capire il senso.

Non capiamo il senso di tante cose, per la verità. Ad esempio, è difficile capire il senso di una folla oceanica che si riversa su quei campi e che gode — sì: gode — nel vedere un manipolo di atleti in bicicletta che sbuffa nella polvere e suda e soffre e pedala con le vesciche sulle mani, rimbalzando su e giù lungo quelle strade di pietra.

È la Parigi-Roubaix. È un’orgia di ciclismo.

Ogni tifoso di ciclismo fino a un paio di mesi fa sognava di vedere la pioggia a Pasqua. C’è chi ha salvato fra i preferiti sull’applicazione meteo del telefono “Roubaix” solo per monitorare eventuali previsioni del tempo da quelle parti. Sia mai dovesse piovere.

Quando piove, il pavé si trasforma in un inferno di fango e pozzanghere. L’acqua si infila da tutte le parti fra una pietra e l’altra tirando fuori la terra che va a ricoprire la sede stradale e si trasforma rapidamente in fango. Le classiche canaline a bordo strada, che nei giorni di sole vengono usate dai ciclisti per evitare di sobbalzare sulle pietre sconnesse, diventano sotto la pioggia un terreno impraticabile in cui le bici si incagliano e rimangono impantanate nel terreno molliccio. Le ruote non tirano su leggere nuvolette di polvere ma sparano schizzi di fango ovunque che ricoprono i ciclisti rendendoli quasi irriconoscibili, indistinguibili l’uno dall’altro e dalla massa fangosa su cui cercano faticosamente di far scorrere le rispettive biciclette.

L’ultima volta che ha piovuto a Roubaix la seconda domenica di aprile, era il 14 aprile 2002.

La Foresta di Arenberg, 14 aprile 2002. © Nord éclair

L’inferno del Nord

Quel giorno si correva la centesima edizione della Parigi-Roubaix. Sette giorni prima, Andrea Tafi aveva vinto il Giro delle Fiandre mettendo nel sacco i grandi favoriti della vigilia, Johan Museeuw, George Hincapie e Peter Van Petegem, grazie alla preziosa collaborazione di Daniele Nardello, suo compagno di squadra alla Mapei.

Al via della Parigi-Roubaix i suoi avversari schiumavano dalla voglia di rivalsa. Ma non avevano previsto la pioggia battente che si abbatté quel giorno sul percorso. Franco Ballerini, che si era ritirato l’anno prima, si aggirava nel villaggio di partenza e, da fuori, godeva in anticipo per lo spettacolo che sapeva quella gara avrebbe offerto. Lui che di Parigi-Roubaix ne aveva vinte due. E insieme a lui godevano milioni di appassionati.

Si dice spesso, dopo un evento sportivo storico, che nessuno dei presenti poteva aspettarsi di assistere alla storia. Quel giorno, invece, tutti sapevano.

Alla partenza c’era il sole, è vero; ma le notizie che arrivavano dal percorso raccontavano di una pioggia asfissiante, preludio a una giornata che prendeva quel ciclismo che si trovava ancora una volta sospeso fra passato e futuro, fra il ciclismo del Novecento e quello del nuovo millennio, e lo sparava con violenza in una dimensione che pensava di aver ormai abbandonato. Lo riportava ai suoi albori, al ciclismo dei pionieri, piccoli puntini solitari che si inseguono su strade sterrate, alla mercè delle intemperie, ora ricoperti di polvere ora cosparsi di fango.

A molti non piace correre in quelle condizioni, e non hanno tutti i torti. Alcuni riescono meglio di altri a farsene una ragione. Fondamentalmente, molti non riescono a gestirla. Si svegliano, vedono la pioggia e mentalmente sono finiti. I tifosi invece godono e non ne fanno mistero. La Parigi-Roubaix è senza dubbio la corsa che più si trasforma con la pioggia. Perché quando piove in quel modo il pavé diventa liscio come il ghiaccio e devi pedalare cercando di trovare il fango al centro e ai bordi della strada per evitare di scivolare sulle pietre bagnate.

Questo significa che a ogni settore di pavé nel gruppo c’è la lotta per prendere la corsia giusta e per non rimanere imbottigliato nel traffico. Succede quindi che il gruppo ogni volta si allunga, si spezza in vari tronconi e c’è chi cade scivolando sulle pietre e chi cade facendo a spallate per prendere la posizione giusta. C’è anche chi fora nel tentativo di andare a cercare sollievo spingendosi quasi sul prato ai lati della strada. È il caso di Andrea Tafi, che fora proprio prima della Foresta di Arenberg rimanendo tagliato fuori da ogni possibilità di vittoria.

All’ingresso della Foresta, a più di 80 chilometri dal traguardo, un nutrito manipolo di fuggitivi ha ancora più di 4 minuti di vantaggio sul gruppo. Davanti sono in quattordici e il primo a forzare il ritmo è Enrico Cassani, un gregario di Johan Museeuw. Cassani entra nella Foresta di Arenberg con forza e stacca il resto del gruppo. Da dietro gli si fa sotto Hans De Clercq con a ruota un giovanissimo ragazzo della US Postal che sembra volare sulle pietre. La sua bicicletta scorre più leggera rispetto a quelle dei suoi compagni di fuga, la sua pedalata è composta ed elegante e mentre gli altri sbracciano e sgomitano con lo sguardo basso concentrato solo sul dove mettere la ruota anteriore, quel ragazzo si guarda intorno per controllare la situazione come se fosse a passeggio col cane.

Non è un’esagerazione. Potete andare a rivedervi le immagini dell’epoca. Tom Boonen, che aveva solo ventuno anni, andava via sulle pietre del pavé della Foresta di Arenberg con la tranquillità con cui un fachiro riesce a dormire su un letto di chiodi. La differenza fra lui e gli altri era molto semplice, al di là di tutto il resto: Boonen non aveva paura di correre in quelle condizioni sul pavé. «Ho sempre fatto molto ciclocross durante l’inverno in Belgio, quindi ero abbastanza abituato al fango. Non avere paura rende le cose un po’ più facili».

© Tim de Waele/TDWSport.com

Il resto del gruppo entra nella Foresta di Arenberg quattro minuti più tardi ed è George Hincapie a imporre il suo ritmo e a portare via un gruppetto. Dentro ci sono quasi tutti i principali favoriti: c’è ovviamente Johan Museeuw, e fra gli altri il danese Lars Michaelsen e il tedesco Steffen Wesemann. All’uscita della Foresta la situazione è ormai abbastanza chiara: davanti il gruppo dei fuggitivi tira dritto anche se ovviamente gli uomini della Domo (la squadra di Museeuw, che davanti aveva Enrico Cassani e Max van Heeswijk) smettono di collaborare, così come non collabora più Tom Boonen visto che dietro il suo capitano Hincapie sta facendo il diavolo a quattro. Nel plotoncino degli inseguitori sono rimasti una decina di uomini che guadagnano progressivamente terreno sui fuggitivi. Dietro di loro nessuno sembra poter essere in grado di recuperare.

Nel gruppetto che si è creato, Hincapie sfrutta ogni occasione per cercare di mettere in difficoltà i suoi avversari. Fino al settore di Tilloy-lez-Marchiennes: Aart Vierhouten perde aderenza con la ruota anteriore e scivola portandosi dietro anche metà del gruppetto inseguitore e soprattutto Steffen Wesemann che va dritto di faccia nel fango a bordo strada. Il gruppetto si spacca ancora e davanti restano in sei: Museeuw, Knaven e Fred Rodriguez della Domo, George Hincapie, Lars Michaelsen, Max Sciandri e Thierry Gouvenou.

La situazione in quegli attimi è quanto di più “Roubaix” si possa immaginare: se di solito la sagoma grigiastra delle pietre stacca nitidamente con il verde acceso dei prati intorno, la pioggia battente di quella giornata pareva aver cancellato ogni traccia di pavé e con esso la separazione fra il segno antropico della strada e lo spazio naturale della terra e dell’erba ai suoi lati. Quando Vierhouten cade semplicemente perdendo del tutto aderenza col terreno, dietro di lui anche gli altri che provano a evitarlo finiscono per terra o direttamente con la faccia spalmata nel fango. Anche ripartire, a quel punto, diventa una giostra: le ruote vanno dove vogliono, non hanno una strada da seguire. I ganci delle scarpe faticano a ritrovare l’incastro giusto sui pedali e anche la classica spinta del pubblico o dell’addetto al cambio gomme neutro risulta inefficace in mezzo a quel tappeto di fango che sembra non volerne sapere di lasciare andare le bici che ha catturato.

La corsa però non si ferma neanche per un istante e nel gruppo di testa i due uomini Domo (Cassani e van Heeswijk) addormentano la situazione per favorire il rientro del capitano Museeuw, che già all’epoca si era guadagnato il titolo di “Leone delle Fiandre” come fu per Fiorenzo Magni tanti anni prima. De Clercq prova a rompere la tirannide dei Domo nel settore di Orchies ma van Heeswijk lo segue come un’ombra e annulla il suo tentativo. Nico Mattan ci riprova pochi chilometri dopo e stavolta è Cassani a ghigliottinare sul nascere ogni sua speranza di libertà. Ormai il gruppetto con quel che è rimasto dei favoriti della vigilia è a meno di un minuto. Da dietro sono rientrati anche tre o quattro uomini che erano rimasti coinvolti nella caduta precedente, fra cui Steffen Wesemann.

Il settore numero 10 (alla Parigi-Roubaix i settori di pavé sono numerati come fosse un conto alla rovescia, per cui l’ultimo settore, quello di Roubaix, è il numero 1) di Auchy-les-Orchies è un altro pantano. László Bodrogi perde le ruote del gruppo di testa, sbanda, cerca di andare in quella sottile striscia di fango fra le pietre e il prato. Poi, semplicemente, si ferma e scende dalla bicicletta, «come se le gambe non fossero più parte del suo corpo» racconta in diretta Phil Liggett con la sua consueta abilità nel mettere insieme le parole giuste al momento giusto.

Hincapie prova a forzare l’andatura dietro ma quando Museeuw gli dà il cambio è chiaro che il passo dei due contendenti è completamente diverso. Il belga assoggetta il fango con lunghe pedalate e sembra che in ogni momento riesca a scegliere la traiettoria migliore sulla quale far correre la sua bicicletta. Hincapie pedala invece con la cattiveria di chi muore dalla voglia di vincere e si danna l’anima per tenere la sua bici ben salda mentre la spinge con affanno ora nel fango ora a sobbalzare sulle pietre. All’uscita di Mons-en-Pévèle i due piccoli gruppi di sopravvissuti si ricongiungono anche se sarà un assembramento di breve durata. Cassani, Museeuw, van Heeswijk, Sciandri, Mattan, Michaelsen, Schweda, Hoffman, Hincapie, Boonen, Wesemann, Gouvenou. Sono solo in dodici. Tutti gli altri sono ormai dispersi da qualche parte nelle campagne dell’Alta Francia.

Lars Michaelsen all’arrivo. © Bruno Bade/ASO

I ritiri, quel giorno, furono alla fine più di cento, cui si sommano una quindicina di ciclisti arrivati fuori tempo massimo (ovvero con un distacco dal primo superiore al limite consentito dal regolamento). Quelli che riuscirono ad arrivare fino in fondo erano sudici in un modo che non mi è mai capitato di rivedere. I loro ricordi sono nitidi eppure frammentati, forse offuscati da quel delirio. Dopo il traguardo, Sciandri faceva fatica a tenere gli occhi aperti, pieni com’erano di quel misto di fango e sabbia; fu preso per mano da un massaggiatore che lo portò negli spogliatoi e lo aiutò a farsi la doccia. Hincapie rimase per venti minuti seduto in una cabina-doccia degli spogliatoi del velodromo con i vestiti sporchi addosso che non aveva la forza di togliersi. «Me ne stavo seduto là, tremando, infreddolito. Ero distrutto, mentalmente e fisicamente».

Il Leone solitario

Eravamo rimasti con dodici uomini al comando della Parigi-Roubaix del 2002, la centesima edizione, corsa come al solito la seconda domenica di aprile. Sotto la pioggia.

Il settore di Mérignies, segnalato con difficoltà 2 stelle su 5, lungo solamente 700 metri a circa 40 chilometri dal velodromo di Roubaix, normalmente è un breve e innocuo tratto di pavé. Ma in quelle condizioni anche un settore facile come quello può trasformarsi in un piccolo inferno.

Lars Michaelsen prende il pavé in testa e aumenta il ritmo mettendo in difficoltà i più stanchi rimasti in gruppo. Le immagini staccano sul terzetto rimasto attardato per inquadrare Hans De Clercq a terra. Quando la regia torna sul gruppo di testa non c’è più la maglia giallonera di Michaelsen davanti ma quella biancazzurra con le maniche iridate, anche se ormai ricoperta di fango, di Johan Museeuw. Alle sue spalle non c’è nessuno. Dalle immagini dall’elicottero l’inquadratura si allarga dalla figura di Museeuw alla ricerca del resto del gruppo, invano.

«Non era previsto che attaccassi lì — ha raccontato in seguito il belga -. Mi sono fidato del mio istinto e delle mie gambe. Sì forse era un po’ presto, ma ho anticipato per non essere anticipato come al Fiandre». Il Leone delle Fiandre va via da solo e in poche pedalate ha guadagnato una cinquantina di metri su Michaelsen e Hincapie. Ancora più indietro il resto dell’ormai ex-gruppo di dodici, all’inseguimento.

Michaelsen e Hincapie, nel fango, all’inseguimento di Museeuw. © Bruno Bade/ASO

Hincapie decide di aspettare il resto del gruppo per farsi aiutare nell’inseguimento da Tom Boonen, ma Museeuw continua a guadagnare dai 4 ai 6 secondi al chilometro, sia nei tratti di pavè che in quelli in asfalto. La bocca spalancata che annaspa nella pioggia, il volto ricoperto di fango secco e grigio, le palpebre socchiuse e le sopracciglia corrucciate nel tentativo di non far entrare negli occhi altro fango, per proteggerli dal vento e dalla pioggia.

All’uscita del settore 7, Pont-Thibaut, il vantaggio di Museeuw è di 17 secondi. In una curva a destra a circa 35 chilometri dal traguardo, Lars Michaelsen rimbalza male su un tombino in entrata di curva e scivola sull’asfalto. Il gruppetto si spacca ancora una volta, con i due uomini della US Postal davanti, Sciandri e Mattan un po’ più indietro a inseguire, Michaelsen che riparte a fatica. Davanti, Museeuw continua a guadagnare.

Il volto di Hincapie è anch’esso coperto di quella stessa strana fanghiglia grigia ma il suo sguardo non è stretto, la bocca non è spalancata. Gli occhi neri e profondi dell’atleta newyorkese mai come in quegli attimi lasciano trasparire la consapevolezza di aver fallito e la paura di aver perso la sua ultima occasione per farcela.

All’imbocco del settore 5, Cysoing, il vantaggio di Museeuw sul duo Hincapie-Boonen è lievitato a oltre 45 secondi. Il belga pedala con un rapporto più duro, come un uomo che ha sfidato a viso aperto le pietre della Roubaix ed è destinato a vincere. A vederlo oggi sembra venire da un’altra epoca storica. Hincapie e Boonen spingono un rapporto più morbido ma meno efficace. E infatti il vantaggio continua a salire, chilometro dopo chilometro: un minuto, un minuto e venti, due minuti.

Quando si corre a testa bassa per tutti quei chilometri il rischio è che all’improvviso si spenga la luce e le gambe smettano di girare improvvisamente. Se poi ci si mette di mezzo anche la pioggia e la prospettiva di una vittoria che sembrava a portata di mano che scivola via fra le dita, allora basta veramente poco per far precipitare gli eventi.

A Camphin-en-Pévèle due macchine si bloccano in mezzo alla strada costringendo Boonen e Hincapie a rallentare l’azione per scansarle sulla destra. Pochi metri dopo, probabilmente distratto da quanto appena successo o forse semplicemente con la mente obnubilata dalla fatica, Hincapie si sposta sulla sinistra della strada, la bici si infila in una strana canalina, si impunta e lo disarciona tirandolo nel fosso.

«In tutta la mia carriera — ha raccontato tanti anni dopo George Hincapie — non mi sono probabilmente mai sentito così esausto, così estremamente vuoto, come allora. Mi ricordo che stavo steso in quel fosso senza volermi rialzare perché ero davvero morto. Ma c’era l’elicottero che girava sopra di me e pensai “meglio uscire da questo fosso, sono in TV, non posso restare qui sdraiato”».

Per il capitano della US Postal la centesima edizione della Parigi-Roubaix finisce lì in quel fosso, anche se arriverà al traguardo in sesta posizione. Non riuscirà mai a vincere la Roubaix.

A Roubaix c’è il sole

Johan Museeuw vinse quella Parigi-Roubaix, la terza nella sua straordinaria carriera, con oltre tre minuti di vantaggio sul secondo, un redivivo Steffen Wesemann che negli ultimi chilometri aveva ripreso e staccato uno spento Hincapie e si era riportato sul suo giovane compagno di squadra. Tom Boonen chiuse al terzo posto dopo essere stato in fuga tutto il giorno e aver lavorato fino all’ultimo per George Hincapie.

Ancora più distanti gli altri reduci di quella incredibile giornata: Tristan Hoffman, Lars Michaelsen, George Hincapie, e via via tutti gli altri fino all’undicesimo posto di Raphael Schweda a 4’09”. Il dodicesimo, Hans De Clercq, arrivò a 8’07” dopo essersi rotto il polso in una caduta nello stesso settore in cui Johan Museeuw sferrò l’attacco decisivo.

Il Leone delle Fiandre. © Belga Images

Alla fine della storia, dei 190 partenti solo in 57 riuscirono ad arrivare a Roubaix. Di questi, sedici arriveranno fuori tempo massimo. A tagliare il traguardo in 42esima posizione, il primo di quelli arrivati fuori tempo massimo, fu un australiano della Rabobank, Mathew Hayman, che avrebbe di lì a poco compiuto 24 anni e che quattordici anni dopo, da perfetto sconosciuto, avrebbe vinto a sorpresa l’edizione del 2016 beffando allo sprint quello stesso Tom Boonen che nel frattempo era diventato il più grande interprete di sempre della Parigi-Roubaix. Quella straordinaria vittoria del 2016 arrivò quando ormai Hayman aveva già quasi 38 anni. Si ritirerà nel 2019, al termine del Tour Down Under. La Roubaix 2016 fu la sua ottava e ultima vittoria individuale in carriera.

Johan Museeuw correrà altre due campagne del Nord senza però riuscire a salire sul podio né al Giro delle Fiandre né alla Parigi-Roubaix. Si ritirerà nel 2004 dopo aver passato gli ultimi due anni di carriera alla Quick Step. Correrà insieme all’altro protagonista di quella Roubaix del 2002: Tom Boonen. Tommeke passerà infatti a fine stagione dalla US Postal alla Quick Step di Lefevere con cui trascorrerà il resto della sua lunga carriera vincendo quattro volte la Parigi-Roubaix. La prima, nel 2005, battendo allo sprint nel velodromo il suo vecchio capitano George Hincapie.

Hincapie non riuscirà mai a vincere la Roubaix ma sarà il primo statunitense ad arrivare sul podio, proprio in quel 2005. Continuerà a correre fino al 2012, quando confesserà di aver fatto uso di doping ai tempi della US Postal rivelandosi come uno dei testimoni chiave nel processo a Lance Armstrong. L’USADA (l’agenzia antidoping Usa) lo squalificò per sei mesi e, ironia della sorte, cancellò tutti i risultati da lui ottenuti dal 31 marzo 2004 al 31 luglio 2006, compreso quell’unico podio nella sua amata Parigi-Roubaix.

László Bodrogi quel giorno arrivò fuori tempo massimo. È l’unico ciclista ungherese ad aver partecipato al Tour de France (nel 2002, 2003 e 2005) anche se dal 2008 ha ottenuto la cittadinanza francese. Oggi vive a Ney, nel sud-ovest della Francia, con la moglie (francese). Si ritirerà nel 2012 dopo aver collezionato un 50° posto, un 62°, un 52°, un ritiro e altri due “fuori tempo massimo” alla Parigi-Roubaix (il più recente nel 2010, alla sua ultima partecipazione).

Quella seconda domenica di aprile, dopo aver diluviato per tutto il giorno, quando Johan Museeuw fa il suo ingresso nel velodromo André-Pétrieux, a Roubaix c’è il sole. Anche quest’anno, nella seconda domenica di aprile, nelle campagne fra Compiègne e Roubaix non ha piovuto. E chi se ne frega, potreste dire voi, chiusi nelle vostre case. Ma se siete arrivati fin qui, forse, anche voi sarete contenti di non aver dovuto rinunciare a un’altra giornata come quella.

Ventagli è un progetto sull’attualità del mondo ciclistico in collaborazione con Loggione Sport. Ha una pagina twitter dove potete trovare commenti e opinioni giornaliere ed una pagina instagram per indagare la bellezza di questo sport attraverso le immagini.

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Scrittore disorientato. Ho due grandi passioni: il ciclismo e la Fiorentina.